Il vizio di scrivere

10.11.2013 18:03

La natura della parola è un arcano che trae le sue origini nella notte dei tempi.

Ostinatamente, essa ha cavalcato le onde turbolente della storia, marcando, con la sua impronta indelebile ed originale, ogni epoca sino alla nostra modernità tecnologica.

Parole incise sulla pietra o tracciate fragili su una striscia di sabbia macchiata dal vento, si susseguono e confondono, capaci di suscitare sensazioni uniche a volte indescrivibili, comprensibili solo ad un più alto livello emotivo.

Parole come simboli di vita, universali ed archetipe, strumenti necessari per l’evoluzione e l’elevazione spirituale dell’uomo.

Nascono e sgorgano come una fonte inesauribile dalla sorgente delle più antiche civiltà.

Parole, tesoro di significati, usi, costumi e tradizioni tramandate dai secoli passati che hanno plasmato il nostro intelletto e dato vigore alla nostra creatività.

Parole come armi, strumenti di conquista e di giustizia, vessillo di ideali e fiorente nobiltà ma anche incantatrici magiche, ingannevoli e tentatrici.

Parole, prime e ultime come espressione della personalità, nel bene e nel male, d’ispirazione divina o eretiche, demoniache e/o estatiche, suono fiabesco di un flauto che dal folto del bosco diffonde note sublimi e brividi primordiali.

Nasce da questa esigenza, dall’esigenza della personalità di esprimersi in forme e colori, dall’espressione in musica delle proprie peculiarità e sfumature, la volontà di comunicare attraverso la semplice complessità di queste righe.

 

Interrogarsi sull’impalpabilità delle proprie paure, ciò che le sorregge e ciò che le comanda e guida. Affascinati dalla propria inconsistenza, dalla disarmante anima che alberga nei nostri esili corpi, miseri di fronte all’eternità e all’onniscienza dell’Assoluto. Nulla noi di fronte a Dio. Eppure unici nella nostra straordinaria forza di particelle infinitesimali, senza le quali il tutto perderebbe valore e significato. Unici perché così voluti e creati dall’Eterno. L’Eterno che è verbo e parola … d’amore.

E si è fatto Uomo ed è venuto ad abitare in mezzo a noi. Nell’anima dimora e con la Sua luce riscalda i nostri cuori e rischiara la nostra mente.

 

Attore inconsapevole del proprio ruolo, mi muovo indifferente tra le scene allestite da tecnici dilettanti. Imbrigliato in un copione che non mi appartiene. Recitando caricature di me stesso nel teatro farsesco dell’esistenza.

Attendo paziente le mie battute, seguendo distratto i movimenti isterici di un regista smarrito.

Attendo come rassegnato da un destino non scritto di fatti già segnati e inconsciamente metabolizzati.

La vita mi sorprende per la sua surreale banalità.

Strade cosparse di coriandoli carnevaleschi e lucide di olio motore sul quale splendide le autovetture di uomini liberi scivolano verso la loro catastrofe. Mitici avventurieri, solcano mari in tempesta con imbarcazioni di fortuna alla ricerca del proprio onore.

Prigioniero della mia realtà o della realtà costruita per me da un burattinaio misterioso. Confronto l’essere con l’avere e l’avere con la felicità.

L’armonia è un concetto sfuggevole che vorrei mi appartenesse. Osservo impotente il dipanarsi degli eventi dei quali non mi sento protagonista e con loro soffro e scrivo le mie abitudini di artista.

Fatiscente come un filo d’erba dal vento battuto e dalla pioggia sferzato, mi inchino al volere di opinioni superficiali ed arroganti. Vacue le mie speranze di serenità, perché la serenità è data dal coraggio delle proprie azioni e le idee e la volontà mai si traducono in realtà apprezzabili.

Ti racconto di me interlocutore sensibile e paziente, per sfogare la mia vulnerabilità, scuotendo impetuoso le armi bianche, sterili del mio abbandono.

Silente, come un brivido sotterraneo che scorre lungo le vene aride di sangue, il vanto di una gloria perduta fugge sulle ali di un albatros primordiale. Come pochi coraggioso del suo destino di morente, affronta impavido le leggi di una natura avversa.

 

Piccoli cerchi d’acqua cristallina si disperdono nello stagno tra i fragori di un cielo in tempesta. Gocce cantilenanti di un temporale appena accennato, timido come uno scolaretto al suo primo giorno di scuola, si sciolgono sul prato sfiorito di inizio autunno.

Passeggio curioso tra gli arbusti spogli, schiacciando foglie di cartapesta che si frantumano consapevoli sotto il peso dei miei passi. Il sibilo del vento serpeggia tra i nudi rami invecchiati di quercia e betulla. Mi racconto di un’estate passata, dal sole sfavillante e dai sorrisi freschi di giovani in festa e di grida di bambini arrembanti.

Il mio bastone trema per il venir meno delle forze e lento ed un poco incerto mi avvicino alla soglia del riposo. Una panca di legno stagionato che accoglierà caliente il mio corpo appassito.

Il corpo di un anziano che nulla aspetta, spera o teme.

Che nulla più auspica, presume o conviene!

Nulla...

Neanche la morte.

 

Un saluto,
Elmoamf
 
 
 

Argomento: Il vizio di scrivere

Nessun commento trovato.

Nuovo commento